martedì 27 settembre 2011

La pelle che abito di Pedro Almodovar





Non ci posso fare niente, amavo l'Almodovar primo periodo, quello più colorato, spagnolo e divertente, e amo altrettanto l'Almodovar maturo degli ultimi due film (Abbracci spezzati e quest'ultimo). Ha perso in colore quello che ha guadagnato in eleganza, ma sotto sotto è rimasto lo stesso.

La pelle che abito è un'adattamento di Tarantola, un romanzo di Thierry Jonquet. Il libro non l'ho letto e prima del film non ne avevo mai sentito parlare, ma pare che Almodovar lo abbia pesantemente rimaneggiato in fase di sceneggiatura. Il risultato è ottimo e potrebbe tranquillamente trattarsi di una sceneggiatura originale, perché i temi, le situazioni e i personaggi sono quelli tipici dell regista spagnolo.
Il film è stato presentato per la prima volta al Festival di Cannes, e da allora se n'è parlato parecchio, spesso a sproposito. Qualcuno lo ha massacrato e qualcuno lo ha promosso con qualche riserva, mentre trailer e recensioni lo pubblicizzavano come "il thriller secondo Almodovar", un omaggio al cinema di genere e a film come Occhi senza volto (splendido, se non lo avete visto fatelo subito).
Tutto vero fino a un certo punto, perché la pellicola è così particolare e personale che secondo me è sbagliato tentare di incasellarla in un genere che chiaramente le sta troppo stretto.
 E qui mi fermo, proprio per non fare lo stesso errore di tanti recensori che scelgono di rivelare troppo. E in questo caso sarebbe un vero delitto.
Insomma mi risparmio anche il solito riassunto della trama, un pò per le ragioni di cui sopra, un pò perché mi troverei in difficoltà a descrivere una storia così bizzarra e dallo sviluppo molto poco lineare.
Proprio questo aspetto all'inizio lascia un pò spiazzati e perplessi. La prima metà del film infatti prosegue piuttosto spedita lasciando lo spettatore in preda a tanti dubbi e con pochissime certezze. Qualcuno lamentava la mancanza di ritmo, mentre a me è sembrato addirittura troppo serrato, in pochi minuti succede l'impossibile e all'improvviso parte un flashback che contribuisce a complicare ulteriormente le cose. L'interesse però rimane sempre vivissimo e da metà film in poi tutti i pezzi vanno al loro posto, mentre ci si rende conto che la narrazione cronologicamente disordinata sta funzionando alla perfezione.
Una storia completamente folle e irrazionale che gradualmente acquista un senso e arriva alla sua conclusione più logica, non nel "colpo di scena" facilmente prevedibile già a metà del cammino, ma in tutta la sequenza finale, dove finalmente ritroviamo l'Almodovar che si fa riconoscere così bene.
Una sceneggiatura difficile gestita alla perfezione e diretta ancora meglio.
Dicevo prima che la regia di Almodovar si è fatta più seria: le immagini hanno perso l'allegria e i colori caldi di film come Donne sull'orlo di una crisi di nervi, ma allo stesso tempo la fotografia si è fatta più pulita e le inquadrature più ricercate. L'effetto finale è veramente raffinato ed elegante, e comunque non mancano una certa originalità nella composizione delle immagini o una cura particolare nella scelta delle scenografie e degli oggetti di scena.
Davvero accattivante.


Buono anche il cast, a partire dalla bellissima e brava Elena Anaya (che occhi ragazzi, spero diventi la nuova attrice feticcio di Almodovar) in un ruolo non proprio facile; e si, persino l'odiatissimo Antonio Banderas mi è piaciuto, tetro e insondabile quanto si addice al suo personaggio.
Menzione d'onore anche per la tostissima Marisa Paredes e per il personaggio del Tigre, rozzo e straniante.














Bellissimo, vedetelo di corsa.

lunedì 12 settembre 2011

When you're strange di Tom DiCillo


Documentario sui Doors del 2010 uscito direttamente in Home Video, riassume forse troppo brevemente la storia della band dalla nascita nel 1965 alla morte di Jim Morrison nel 1971. Narrato dalla bella voce suadente di Johnny Depp e doppiato in italiano da quella di Morgan... Ovviamente me lo sono visto in lingua originale, un pò perché trovo Morgan estremamente irritante e un pò perché Depp mi piace ancora, nonostante le discutibilissime scelte professionali. E poi vedendo il backstage mi pare che Morgan si sia preso qualche libertà di troppo, magari è veramente una persona preparata, ma mi pare che si sforzi troppo per dimostrarla questa cultura.
Tornando al film: abbastanza deludente, almeno per me che conosco piuttosto bene il gruppo e che per qualche strana ragione mi ero creato delle aspettative sproporzionate per questo documentario. In realtà è un prodotto discreto, che riesce della difficilissima impresa di riassumere in 86 minuti una fase musicale e storica fondamentale, creando un ritratto di Morrison e dei Doors abbastanza completo, sia per chi come me li adora, sia per chi malauguratamente non ne ha mai sentito parlare.
La struttura è piuttosto classica, la voce narrante apre il film con qualche dettaglio sul periodo storico e culturale in cui il gruppo prende vita, e poi iniziano una serie di filmati e foto di repertorio alternati a una parte di fiction in cui un sosia di Morrison viaggia in macchina in mezzo al deserto, mentre la radio trasmettei dettagli sulla sua recente dipartita.
Ecco, se la parte documentaristica funziona dignitosamente, questi intermezzi sembrano alquanto inutili e fuori luogo. Non aggiungono nulla al prodotto finale e anzi rubano dello spazio che avrebbe potuto essere utilizzato per rendere il documentario più completo.
E poi boh, Morrison che guida e dà un passaggio a se stesso, si ferma vicino alla carcassa di un cane o balla davanti a un falò in mezzo al deserto insieme a dei bambini... Ma che significa ? Mi sembra stupido e stereotipato.
Il resto invece funziona alla grande e nella mischia ho beccato anche qualche filmato che non avevo mai visto, però allo stesso tempo ho avuto la sensazione che mancassero tanti dettagli e materiali che avrebbero sicuramente arricchito la ricostruzione. Probabilmente DiCillo ha preferito montare materiale nuovo, evitando di rubacchiare da altri documentari o da filmati di repertorio di cui in passato ci si è serviti troppo. E questa sensazione è confermata anche dal fatto che il suo film si sofferma molto poco sui fatti più noti al pubblico, come per esempio la famosissima esibizione all'Ed Sullivan Show, preferendo magari approfondire meglio qualcosa di meno scontato come il processo a Morrison dopo i fatti di Miami. Una scelta che personalmente ho apprezzato molto e che ci mostra un Morrison più umano, costretto per la prima volta ad affrontare una sconfitta.
Mi sarebbe piaciuto vedere un pò più di spazio dedicato al gruppo nel suo insieme, alle sue grandi potenzialità e alle conseguenze dei comportamenti di Jim, ma in fondo il protagonista è ancora una volta lui.

L'inizio da solo vale la visione:















Hahahah un sorriso bellissimo. Sembra quello di un bambino: "Non avete idea di cosa vi aspetta".
Lo amo, e amo anche Manzarek.

Ah, nei contenuti speciali c'è una bella intervista al padre e alla sorella di Morrison, non capisco perché non le abbiano inserite nel film, è materiale inedito.
Mi piace il padre perché, come il figlio, è rimasto sempre molto coerente. Dopo aver sentito la prima canzone nel 1966 telefonò a Jim e gli disse che secondo lui era completamente privo di talento musicale, nell'intervista del 2009, dopo tanti anni e tutto quel successo, dice di pensarla ancora così. "Era un grande intrattenitore, ma un pessimo cantante".

sabato 10 settembre 2011

Manos - The hands of fate di Harold P. Warren

Manos - The hands of fate
Scritto, diretto, prodotto e interpretato da Harold P. Warren



Huhuhu probabilmente il peggior film della storia, e comunque il podio non glielo leva nessuno. Sembra un filmino delle vacanze, vacanze terribili.
Warren lo realizzò nel 1966 come penitenza per una scommessa persa, e già questo la dice lunga, poi nel 1993 il film venne mostrato nell'ultimo episodio della serie Mistery Science Theater 3000 e da quel momento è diventato un fenomeno di culto per tutti gli amanti del trash prepotente. Si dice che Tarantino abbia acquistato la pellicola originale per la sua collezione personale perché, pur essendo un horror, lo considera la sua commedia preferita.
Ma andiamo per ordine:
La trama, che raccontata così potrebbe anche sembrare decente, è già di per se un capolavoro. Michael (Warren), sua moglie Margareth e la piccola Debbie stanno facendo un bel viaggetto sul una Ford Galaxy decappottabile, gli abiti che indossano sono degli anni '50 e la località desertica sullo sfondo è El Paso.
Michael è il classico padre di famiglia, si è perso ma non vuole ammetterlo, però la moglie è una scassapalle che si lamenta di tutto e gli fa pesare la cosa.
Finalmente raggiungono la svolta per Valley Lounge e imboccano una strada in pieno deserto, incontrano una coppietta intenta a pomiciare e sbevazzare, e poi si perdono di nuovo... A questo punto, nonostante sia ancora pomeriggio pieno, la moglie sottolinea con acidità "Si sta facendo buio, torniamo indietro".
E così fanno, ma a metà strada si imbattono in una casa che prima non avevano notato. Sulla soglia c'è lui:

Torgo, interpretato da John Reynolds, anche se sembra Neri Marcorè quando imita Gasparri. L'"attore" era un tossicodipendente (la cosa è evidente), che si è suicidato 6 mesi dopo l'uscita del film, non ci giurerei ma credo che i due fatti siano in qualche modo collegati.
Insomma Torgo, che ha un tema musicale tutto suo, è un servitore storpio con un bastone, sulla cui sommità compare una mano di metallo. Il poveraccio ha delle ginocchia enormi (secondo Warren doveva sembrare un Satiro) e zoppica come un pazzo con le convulsioni, forse reali sintomi di astinenza, quindi per fare qualsiasi movimento impiega un'eternità. Anche quando parla tende ad essere evasivo o molto ripetitivo e i suoi occhi non si fermano un attimo. Il classico fattone che non ce la fa a stare dietro al discorso e si annoia.
Tanto per peggiorare le cose, l'allegra famigliola lo costringe a fare avanti indietro con i bagagli e la cosa diventa davvero esilarante.
Questo spassoso servitore fa la guardia alla casa, mentre il suo misterioso Maestro è assente, ma è sempre con lui, ma è assente, anche se è sempre con lui.
Intanto l'allegra famigliola sente puzza di guai, il loro cagnolino scappa e viene divorato da qualche animale del deserto, e la bambina si fa delle penniche profondissime, ma dipende un pò dalle inquadrature.

Tagliando corto, il maestro è uno che somiglia a Frank Zappa ma ha una bellissima tunica nera decorata da gigantesche mani rosse, riposa nel deserto e ogni tanto si sveglia per aggiungere una nuova moglie alla collezione, però Torgo, invaghito di Margareth, si ribella al maestro e viene punito in modo fintroppo delicato, mentre le altre mogli si lanciano in una lunghissima cat-fight per decidere se uccidere o no la bambina.
Ah dimenticavo, il maestro venera una divinità chiamata Manos, ma il film rimane un pò sul vago in proposito.
Una vera sceneggiatura spacca mascella, ma il meglio sta tutto nella regia e nelle interpretazioni magistrali.

Bisogna premettere un paio di cose:
Vedendo il film è difficile non notare i milioni di tagli con cui è stato mutilato, all'inzio pensavo fossero dovuti alla totale mancanza di preparazione del regista e del montatore, se ce n'è stato uno, invece solo ora scopro che è tutta colpa della macchina da presa, una Bell & Howell da 16mm a mano che permetteva di girare solo per 32 secondi alla volta.
Quindi potete tranquillamente immaginare il grande dinamismo della pellicola. Ogni scena di dialogo è interrotta da diversi tagli, con cambi di inquadratura e di luminosità belli quanto utili. Oppure ci sono 30-40 tagli tutti sulla stessa inquadratura, alternati a qualche raccordo in asse e a un sacco di primi piani con luce e colori completamente sballati. Anche per queste ragioni l'intero film è stato poi pesantemente rimaneggiato in post produzione, e tutti i dialoghi sono stati ridoppiati da soli tre attori.
In post-produzione dovevano anche essere aggiunti dei titoli di testa, però qualcuno si è dimenticato farlo e allora è rimasta solo una lunghissima e inutile sequenza del viaggio in auto con la solita valanga di tagli e scenografie che si ripetono in continuazione.
Altra cosa importante è l'assenza dell'effetto notte. Le scene notturne sono state veramente girate di notte in mezzo al deserto, così le luci di scena attiravano un sacco di insetti che sono visibili abbastanza chiaramente nella versione finale del film.
Probabilmente la bambina che interpretava Debbie era troppo piccola per stare sveglia fino a tardi, perché durante il film la vediamo spesso profondamente addormentata sullo sfondo, sul divano di una delle tre location. Probabilmente ogni tanto tentavano di svegliarla, infatti in un'inquadratura è sdraiata mentre in quella dopo è seduta, e così via...
Naturalmente le poche luci a disposizione bastavano soltanto per illuminare gli attori, che quindi non potevano muoversi molto o allontanarsi dalla posizione iniziale. Da qui una scena spassosissima: due poliziotti sentono degli spari nel deserto e scendono dalla macchina, ma non potendo fare nulla, fingono delle facce preoccupate e risalgono tranquillamente in macchina come se niente fosse.
Come se non bastasse ci sono anche tantissimi blooper. Le penniche della bambina, la madre che da un'inquadratura all'altra si perde il foulard, varie linee di dialogo incoerenti e slegate dal contesto, insetti che sbattono contro l'obiettivo, fotografia saturatissima, ciak in bella vista, battute ripetute sempre per due volte, cani al guinzaglio che non vedono l'ora di andarsene...
Un paio di situazioni meritano assolutamente di essere citate:
- La coppia che pomicia in macchina.
In pratica l'attrice femminile avrebbe dovuto vedersi di più, ma si era rotta una gamba poco prima e quindi in ogni scena è seduta in macchina in braccio al fidanzato. Durante una delle scene che li riguardano si vede benissimo il ciak che passa davanti all'obiettivo:

Memorabile la reazione di lei davanti ai rimproveri dell'agente di polizia "Why won't you guys leave us alone ?"
Ma guys chi ? Boh.
-Il supplizio di Torgo
Come dicevo prima, Torgo viene punito dal maestro per la sua insubordinazione. La pena dovrebbe essere la morte, ma all'inizio viene semplicemente messo in un angolo in preda alle solite convulsioni. Poi, sdraiato su un altare, viene "torturato" dalle mogli infoiate, che in realtà lo stanno solo massaggiando.
Solo alla fine il maestro lo prende per il braccio e gli stacca la mano riducendola in fiamme, mentre il povero Torgo corre nell'oscurità rischiarata solo dal suo moncherino.
Una scena che oserei definire trascendentale.
-La fuga di Debbie
Dopo la morte del cagnolino, la madre non sa come spiegare la cosa alla bambina ma il padre risponde rassicurante:
"She's my baby, she will understand. She's my baby, she will understand."
Si esatto, lo ripete due volte.
Nel frattempo Debbie alle loro spalle esce dalla stanza, dopodiché lui si volta inorridito e urla "Where is she ?!?!".
Detta così non fa ridere, ma vi assicuro che mi mancava il fiato.
-Le mogli del Maestro
Tutte modelle di El Paso. Sono divertenti perché gesticolano come delle vedove sicule, e poi per la lunga lotta già citata. Si prendono a schiaffoni ma lo fanno in modo delicatissimo.
-Dimenticavo la cosa più importante, le musiche!
In realtà sono due. La prima, il tema principale, è una musichetta da film erotico con ritmo sincopato e molto clarinetto. Non c'entra assolutamente niente con nulla, e accompagna indiscriminatamente sia le scene più tranquille sia quelle che dovrebbero trasmettere tensione. Praticamente ricopre il 90% del film.
E poi c'è il tema di Torgo, una musica da pianoforte che ricorda tanto quelle dei film espressionisti tedeschi.
Vi assicuro che i primi venti minuti sono un'esperienza unica. Dieci minuti di viaggio in macchina senza dialoghi e con questo ritmo ipnotico... Veramente fantastico.

Vedetelo!

mercoledì 7 settembre 2011

Paura nella città dei morti viventi di Lucio Fulci

Dopo il colpaccio di Zombi 2 a Fulci viene proposto di continuare con i morti viventi, e lui tira fuori la celebre trilogia composta da Paura nella città dei morti viventi, L'aldilà e Quella villa accanto al cimitero, tutti e tre caratterizzati dalla presenza degli ormai commercialissimi zombie. Al contrario del film di Romero e del sequel apocrifo, qui i morti vengono riportati in vita da oscure e antiche maledizioni mentre l'aspetto scientifico viene del tutto sacrificato. In realtà tutta la trilogia sembra fortemente influenzata dall'horror gotico classico e soprattutto dalla letteratura di H.P. Lovecraft, che in questo primo film viene anche omaggiato indirettamente.
Passiamo alla trama, che tanto per cambiare è il problema più grosso del film.
Tutto inizia con Padre Thomas, il pastore della città di Dunwich, che dopo aver passeggiato per un pò nel cimitero cittadino sceglie un albero e si impicca.
Nel frattempo a New York si sta tenendo una seduta spiritica, ma la medium perde il controllo e una partecipante, Mary, perde i sensi e muore dopo aver farfugliato qualcosa su una città dei morti viventi.
Il reporter Peter Bell vuole vederci chiaro sulla faccenda e senza alcun motivo logico va ad assistere alla sepoltura di Mary. Ma la giovane improvvisamente torna in vita e lui, nonostante il terribile taglio di capelli, se ne accorge e la salva.
La medium naturalmente sapeva già tutto, perché quello che sta accadendo è già stato scritto nel libro di Enoch, un volumone stampato e rilegato (?) la bellezza di 4000 anni prima.
Insomma la coppietta deve andare a Dunwich e trovare il sepolcro di Padre Thomas che con il suo suicidio ha inspiegabilmente liberato una forza capace di riportare in vita i morti.
Una sceneggiatura che purtroppo proprio non sta in piedi, anche se i veri problemi riguardano soprattutto la prima parte. La seduta spiritica, la resurrezione di Mary, il libro profetico di Enoch sono delle trovate davvero sciocche e inutilmente complicate, non solo abbassano i toni ma afflosciano il ritmo ancora prima di iniziare.
Pasticci difficili da ignorare, ma chi vede un film di Fulci, soprattutto se non si tratta di un giallo, non si aspetta finezze narrative e dialoghi teatrali, ed infatti i meriti del film risiedono altrove.
Prima di tutto le atmosfere: nulla di raffinato sia chiaro, ma la fotografia sporca e bluastra, la continua ricerca del macabro a tutti i costi e le musiche ipnotiche di Frizzi producono un risultato davvero notevole. Fulci non cerca di suscitare la paura attraverso suspence e tensione, come negli horror contemporanei o negli zombie movies classici, ma preferisce piuttosto basare tutto sull'immagine disgustosa e rivoltante, ricorrendo anche ad espedienti tipici dell'horror gotico, come ondate di lombrichi, fanghiglia e larve.
Neanche a farlo apposta, gli effetti speciali di Giannetto De Rossi sono il pregio principale di questo filmaccio e forse il motivo per cui ancora oggi è tanto celebre. Tra le tante cose, vale la pena citare la bufera di larve che ricopre i protagonisti, o la celeberrima scena in cui il defunto padre Thomas sorprende una coppietta durante il pomiciamento: lei inizia a sanguinare dagli occhi per poi vomitare le sue stesse interiora mentre lui, un giovane Michele Soavi, rimane a guardarla incredulo. C'è anche un bel cranio trapanato...
Peccato solo per il calo qualitativo nel finale, si vede che le fiamme hanno complicato molto le cose agli effettisti e agli stuntmen.
Questa valanga di schifezze, insieme a delle scenografie claustrofobiche e vissute, rendono Paura nella città dei morti viventi un horror visivamente molto appagante per gli amanti dell'orrido. Se sul piano narrativo lascia comunque molto perplessi, va anche detto che la struttura corale funziona davvero bene e il ritmo rilassato dona alla storia una certa oniricità, rendendola quasi una fiaba macabra.
Incredibilmente gli attori non sono i soliti cani e dei dialoghi non proprio pessimi gli danno una mano.

sabato 3 settembre 2011

Django di Sergio Corbucci



Un classico dello spaghetti western più celebre all'estero che in patria, venerato in Germania, dove verranno girati diversi cloni, e amatissimo in America, finirà addirittura nel Museum of Modern Art di New York. Il controverso Takashi Miike lo ha omaggiato direttamente nel suo Sukiyaki Western Django e Alejandro Jodorowki, in un intervista a Stracult, ha persino dichiarato che Django è il suo film preferito(il che spiega un sacco di cose).
Franco Nero in uno dei suoi primi grandi ruoli è Django, un pistolero dagli occhi azzurri vestito di nero che attraversa il deserto trascinando una vecchia e misteriosa bara. Arrivato nella più classica delle città senza nome al confine con il Messico, Django si infila subito in un saloon/bordello e aspetta l'arrivo del Maggiore Jackson, un militare sudista alla guida di un gruppo di fanatici razzisti incappucciati di rosso.
Diventa subito chiaro che il protagonista è in cerca di vendetta, ma cosa nasconde nella bara ? Il cadavere della defunta moglie da vendicare ? E' solo la bara destinata a ospitare il cadavere di Jackson ? E' qualcosa di mistico-religioso ? No, contiene solo un gigantesco gatling-gun. E a pochi minuti dall'inizio Django lo usa per massacrare 40 scagnozzi di jackson in pochi secondi.
Insomma tutto qui, uno spaghetti-western sanguinolento e sporco(non a caso l'aiuto regista è Ruggero Deodato), con decine di cadaveri, quantità considerevoli di sangue, orecchie tagliate e fatte ingoiare alla sfortunata vittima(pare che Tarantino in Le Iene citi proprio questa scena), mani spappolate da zoccoli di cavalli e i soliti schiaffoni dal suono fragoroso.
Corbucci è antitetico rispetto a Leone, alle tonalità calde e uniformi della Trilogia del Dollaro contrappone una serie di colori freddi, occasionalmente ricoperti da chiazze di un rosso sgargiante. L'aridissimo deserto è rimpiazzato da onnipresenti distese di fango che circondano una città morta, un paesaggio naturale forse più vivo ma dalle tinte estremamente grige.
Sulla regia non azzardo neanche un paragone, Corbucci in modo molto poco invadente si limita a inquadrare quello che succede, senza riuscire a donare alla storia l'epicità che gli sarebbe così indispensabile. La macchina da presa non esalta e non incornicia la tensione degli sguardi, la drammaticità di una morte, l'estasi di una vittoria, ma resta sempre e solo una spettatrice. L'unico fiacco tentativo è un ricorrente primo piano su Franco Nero con la testa abbassata e il volto coperto dal cappello, seguito da un leggero e inelegante zoom quando l'attore solleva il capo e fissa la macchina da presa.
Le musiche di Bacalov e Migliacci in questo senso non sono molto d'aiuto, anonime e confinate a un semplice ruolo di sottofondo. Ad affossarle completamente ci pensa l'improbabile canzone Django cantata da Ricky Roberts.
La storia, nonostante gli sforzi per nasconderlo, è molto simile a quella di Per un pugno di dollari(pare che sia stato proprio Corbucci a consigliare a Leone d rifare Yojimbo), ancora una volta un lupo solitario che arriva in città e sfrutta la rivalità tra due gruppi per raggiunger i propri scopi.
La "novità" sta tutta nel finale, a mio avviso abbastanza ridicolo e trascinato, che sembra voler gridare: Guardate, guardate cosa so fare, la scena è pregna di simbolismo!
Tirando le somme, il film non è niente di terribile, diverte come uno spaghetti-western dovrebbe fare, e, a parte nel finale, non cerca mai di strafare. E' orgogliosamente grezzo e sporco e a suo modo ha rinnovato il genere. Non mi spiego comunque l'incredibile successo all'estero, come per molti altri titoli.

Il problema con questo genere di film è che Sergio Leone ci ha viziati fin dall'inizio.